“Multilevel Shorter”, potremmo principiare. Sassofonista lirico e passionale (Wayne Shorter, ovviamente), unico interprete nel “saper cantare in modo supremo una melodia”, disse a suo tempo Miles Davis. Caratteristico sempre, dagli esordi con Miles, appunto, fino al progetto Weather Report dove solamente Zawinul riusciva talvolta a bloccarne ogni poesia con sonorità (non con fraseggi, questo mai) sintetizzate stucchevoli se non imbarazzanti; per approdare in escursioni tardo elettriche con lo Stanley Clarke dei “rivisti e corretti” (If this bas could only talk). Sempre, e comunque, unico, commovente, a sprazzi drammatico nelle evoluzioni melodiche. Ma Shorter non è solo questo, ci dice apertamente Bob Belden; e può influenzarti a diversi livelli: nelle composizioni, negli arrangiamenti, nella stessa evoluzione delle fasi della sua vita musicale. Quindi, non semplicemente composizioni di Shorter di fine anni ‘60/inizio ’70 reinterpretate nel proprio stile, ma quelle stesse composizioni interpretate nel proprio stile assimilando “il messaggio” di Shorter. Concetto difficile da spiegare, ma quello dei 5 musicisti newyorchesi è un tentativo nobilissimo e profondo di reinterpretare/assimilare un musicista, con rispetto profondo e nessuno scimmiottamento interpretativo. Tentativo, questo sarebbe stato da chiarire subito, riuscito, anzi, riuscitissimo. Jazz-rock (osiamo dire?) con punte dinamiche eccellenti e ritmiche incalzanti, groove strepitoso ed una reale e personalissima re-interpretazione di … un musicista! E se a ciò si aggiunge il fatto che la parte ritmica sia stata ottenuta senza l’ausilio di un basso (tastierista e chitarrista si alternano per sostenere il fondamento armonico) ciò fa intendere quanto, in questo caso, Shorter non abbia permeato, con la propria essenza, una persona, chessò, due; bensì, un gruppo. In uno dei più riusciti esempi di positiva, strepitosa, formidabile psicosi di massa.
Enzo Carlucci
Giudizio tecnico: OTTIMO/ECCEZIONALE
Dinamica: 4
Soundstage: 5
Tonal Balance: 5
Dettaglio: 4/5
Single-Point (mah), no overdubs (ci credo), no multitracking (ci credo), no large-mixing console (ma non si trattava di una single-point recording?).
Insomma, che male c’è? Che male c’è ad ammettere che, qui o lì, si è utilizzata qualche “equalizzatina”? Che la batteria ha richiesto un paio di microfoni spot per gli accenti, microfoni magari allineati in fase nel dominio digitale? Sapete, io ne ho un po’ le tasche (per non usare un altro termine) piene di dichiarazioni estremistiche sull’audio. Preferisco sentirmi dire, come da Michael Hobson (Presidente della Classic Records) che vengono utilizzate equalizzazioni, anche se di altissimo livello, per rendere il suono fruibile e corretto, se in origine corretto non era (come in origine corretto, per le rimasterizzazioni, non lo è mai nel 90% dei casi). Evvivaddio. Che male c’è ad ammetterlo? Perché ad esempio faccio fatica, veramente una enorme fatica a credere che (guardate le foto interne del disco) la batteria (letteralmente racchiusa in un gabbiotto) non sia stata “accentata” con un paio di spot ben collocati. Tanto più che la Chesky Records, nel confronto con le altre etichette, non ha vinto: ha stravinto. E se è stata in grado di fare ciò è perché è sempre ricorsa a tecnici (Bob Katz, Miguel Kertsman, Nicholas Prout) di valore elevatissimo. E allora? Cosa dovrei fare? Dovrei parlare dell’ennesima volta dello stratosferico soundstage? O della piacevolissima caratterizzazione eterea del suono? Siamo a livelli scandalosamente alti, signori miei, con una piccolissima riserva per la dinamica; ma pur sempre a livelli elevatissimi. E di fronte a questo positivissimo scempio cosa posso fare se non focalizzarmi sull’eterna costante dei batteristi di non essere capaci di accordare un rullante? E Billy Drummond, ahimé, non fa eccezione.
Enzo Carlucci